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giovedì 25 ottobre 2018

La malattia e l'evoluzione


Domanda di una signora durante un seminario: «Ma Brizzi, tu ti ammali ancora? Dovresti essere ormai al di sopra di queste cose».
Non posso descrivervi la faccia che ho fatto... ma vi assicuro che valeva la pena esserci.
Mentre nel mondo della meccanicità di norma la malattia non ha un significato e viene considerata una disgrazia che colpisce “a caso” - qualcosa di cui il malato è solo in minima parte responsabile (magari perché fuma o per cattiva alimentazione) - nell’ambiente di chi lavora su di sé si sta verificando sempre più spesso un altro problema: le persone si sentono in colpa quando si ammalano, in quanto la malattia sarebbe sintomo d’una realizzazione interiore non ancora perfetta!
La malattia viene vista come il segnale d’uno sbaglio, della capacità di commettere ancora errori, qualcosa di cui vergognarsi poiché espressione della nostra imperfezione interiore. Questo atteggiamento peggiora il nostro rapporto – già di per sé difficile – con la malattia.

Vi ricordo che la perfezione è solo dei maestri (quinta iniziazione), i quali hanno un dominio totale dei tre corpi (fisico, emotivo e mentale) al punto di essere capaci di abbandonare un corpo e ricostruirsene un altro (resurrezione). Tutti noi siamo invece, a gradi diversi, “sulla Via”, per cui è inevitabile – anzi, opportuno – che commettiamo errori e ci ammaliamo, talvolta in misura maggiore rispetto a chi non svolge un lavoro su di sé, proprio perché noi abbiamo deciso di accelerare i tempi attraverso il lavoro su noi stessi.

La malattia e l’errore – per quanto alle volte risultino dolorosi – sono opportunità di crescita, non qualcosa di cui vergognarsi perché sintomo che “sono ancora poco evoluto”. La malattia permette all’anima di scendere in profondità e questo dovrebbe provocare un senso di grande rispetto verso chi sceglie con coraggio di entrare dentro di sé. Il primo a sentire questo rispetto dovrebbe essere il malato stesso... mentre questo spesso non accade.

La personalità non è contenta della malattia o del fallimento, ma l’anima, che è immortale, riceve con piacere questi eventi, in quanto gli eventi traumatici le consentono un’elaborazione più rapida. L’anima ricava sempre delle qualità da quelli che a noi paiono degli ostacoli; tali qualità faranno parte del suo bagaglio nelle vite successive.

Sovente nelle malattie lunghe e dolorose – per esempio nei tumori – il malato ha trasmutato sui piani sottili il suo male e l’anima ha svolto il suo compito, quindi se ne va. Ciò avviene anche se il soggetto non sa nulla di lavoro su di sé: è l’anima che svolge il lavoro. Questo accade sempre nei bambini. Ai parenti dispiace di perdere un loro caro, e questo è perfettamente comprensibile, tutto il dolore che emerge in quelle occasioni è sacrosanto e va lasciato fluire. Ma ciò che conta per l’anima è che nella vita successiva quella persona non dovrà più affrontare quel problema ed entrerà in incarnazione con un livello di saggezza superiore.

Già oggi potete scorgere negli occhi di alcune persone una profondità che deriva proprio dall’aver sofferto molto nella vita precedente. Ecco perché è assurdo vergognarsi di essere “ancora” soggetti alla malattia.

Salvatore Brizzi
[Il mondo è bello, siamo noi ad esser ciechi]





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