Tratto dal precedente post Io sono Ubik:
Io sono Ubik e ti
comunico tre fatti importanti:
1)
Nonostante
i tuoi sforzi e le tue conoscenze, sei ancora totalmente prigioniero dello
psicopenitenziario.
2)
I tuoi
carcerieri sono esseri reali, conoscono bene i principi della spiritualità e ti
tengono prigioniero utilizzando l’ultima arma a loro disposizione: dal momento
che oramai ti sei accorto di vivere in un’illusione, loro ti propongono un
percorso il cui fine ultimo è la fuga dall’illusione. Il punto è che se la
realtà è illusoria, allora le porte che tu speri di utilizzare per uscire dalla
realtà... sono anch’esse illusorie. I tuoi carcerieri ti mettono davanti al
naso delle porte che indicano l’uscita, con il solo scopo di tenerti sempre
all’interno della cella da cui vuoi uscire. Fino a quando tenterai di uscire...
ribadirai inconsciamente di essere prigioniero, perché guarderai sempre la
cella dal punto di vista di qualcuno che ne sta all’interno.
3)
Se
tutto ciò che vedi, senti e pensi è illusorio, allora anche la tua prigionia
non può che essere illusoria. E questo assunto è conosciuto come “paradosso di
Ubik”.
Ainwen chiuse di scatto il libro e si rivolse all’amico che
le sedeva accanto: «Hai capito, Ennòn? Siamo prigionieri di uno
psicopenitenziario! Quello che abbiamo intorno è finto, è come un gioco… o una
prigione, forse dipende da come ciascuno lo vive...».
Il ragazzo la osservava tra l’incredulo e l’incuriosito:
«Ainwen, io non giungerei a conclusioni così affrettate. Chi
è questo Ubik? Dove hai trovato quel libro? Non si capisce nemmeno se Ubik è il
nome del titolo o dell’autore. In ogni caso abbassa il tono della voce, siamo
in una biblioteca» disse lui guardandosi intorno imbarazzato.
Lei continuò con un tono più basso, ma sempre emotivamente
infiammata: «Ti ho appena letto il messaggio completo: a un certo punto dice
che Ubik non può essere descritto. Nessuno sa cos’è. Ma una cosa è certa, lui
afferma che noi siamo dentro una specie di videogioco. Io mi sono anche
informata – e tirò fuori da una cartellina bianca, su cui aveva scritto con un
pennarello rosso “Ubik”, un foglio a quadretti pieno di formule e appunti vari –
e ho capito che è molto probabile che noi tutti viviamo all’interno di una
realtà virtuale. Conosci il filosofo Nick Bostrom?»
«No, Ainwen, non lo conosco» rispose lui con tono rassegnato.
«Non importa. È un filosofo dell’Università di Oxford. In generale
non sono d’accordo con le sue teorie, ma riguardo la realtà virtuale lui,
osservando l’avanzamento sempre più rapido dell’informatica, afferma che se è
possibile che un giorno, senza porci limiti di tempo, una civiltà tecnologicamente
avanzata giunga a simulare un universo totalmente virtuale, allora diviene
estremamente probabile che già la nostra realtà possa essere una simulazione
creata a tavolino da una civiltà molto avanzata».
Ennòn la ascoltava stupito, ma sempre più incuriosito,
passandosi in continuazione la mano fra i capelli biondi. La ragazza –
altrettanto bionda – avanzava come un treno in corsa:
«In pratica la possibilità che non sia così è una su qualche
miliardo. Capisci? Chiunque penserebbe l'opposto: c’è una possibilità su qualche
miliardo che sia vero. Invece pare sia più realistico il contrario: l’ipotesi
che il nostro universo sia una simulazione sarebbe difficile da smentire, non
da dimostrare».
Ennòn teneva gli occhi sgranati. Oramai aveva dimenticato l’ambiente
circostante, rapito dalle argomentazioni di Ainwen:
«Ti
leggo dai miei appunti. Ascoltami bene, perché qui è la chiave di tutto. Bostrom
afferma che almeno una delle seguenti affermazioni è probabilmente vera:
1)
Nessuna
civiltà raggiungerà mai un livello di maturità tecnologica tale da creare
realtà simulate paragonabili alla nostra realtà.
2)
Nessuna
civiltà che abbia raggiunto uno status tecnologico sufficientemente avanzato
produrrà mai una realtà simulata pur potendolo fare, per una qualsiasi ragione,
come l'uso di quella potenza di calcolo per compiti diversi dalla simulazione
virtuale, oppure per considerazioni di ordine etico, ritenendo ad esempio
immorale l'utilizzo di soggetti tenuti “prigionieri” all'interno di realtà
simulate, ecc.
3)
Tutti
i soggetti con il nostro genere di esperienze stanno vivendo all'interno di una
simulazione in atto.
In
questo modo Bostrom giunge al seguente teorema: “Se si pensa che gli argomenti
(1) e (2) siano entrambi probabilisticamente falsi, si dovrebbe allora
accettare come altamente probabile l'argomento (3).” In pratica ci sta dicendo
che, se è probabilmente falso che nessuna civiltà giungerà mai a creare una
realtà totalmente simulata, e se è probabilmente falso che pur potendolo fare,
non lo farà mai per questioni etiche, allora diventa automaticamente molto
probabile che qualcuno abbia già raggiunto quel livello (perché, per quanto ne
sappiamo, potrebbe aver avuto un tempo infinito per riuscirci) e che poi non si
sia fatto problemi etici a mettere in atto tale tecnologia. Per cui, caro il
mio Ennòn, diventa altamente difficile da dimostrare che noi non ci siamo già
immersi dentro».
«Beh...
non so... avrei bisogno di tempo per ragionarci su. Magari dovrei leggere
qualcosa per approfondire».
«Ok.
Fai come vuoi – tagliò corto Ainwen, – ma io adesso la vedo così: se pensiamo a
un gruppo di scienziati extraterrestri che tengono tutto il nostro universo
dentro una sfera di vetro, sopra un tavolo del loro laboratorio... magari la
cosa fa un po’ ridere. Ma io ho già letto altre parti del libro e ho cominciato
a pensarla diversamente: ci sono degli esseri che vivono su altri piani della
realtà, che per noi sono invisibili, esseri che non sono fatti di carne e ossa
come noi e non lavorano dentro laboratori. Questi esseri hanno comunque progettato
un pianeta (che per loro è solo una piattaforma vibratoria su cui implementare
la realtà simulata) nel quale le coscienze umane vengono intrappolate come all’interno
di un sogno da cui non ci si sveglia mai, nemmeno dopo morti, perché si sente
sempre l’irrefrenabile bisogno di ritornare nella psicoprigione, come se si
lasciasse qualcosa in sospeso ogni volta, qualcosa che ci lega a un eterno
ritorno».
«Beh...
ma guarda che ci sono delle religioni che dicono praticamente la stessa cosa. Certo...
raccontata in questo modo perde un po’ la connotazione fantascientifica, ma
rimane pur sempre una teoria assurda. Pone più domande di quelle a cui
risponde. Per esempio, chi sarebbero questi esseri e quali scopi avrebbero?»
Incalzava Ennòn.
«Ti ripeto che non è assurda. Che tutto quello che stiamo
vivendo possa essere finto... è invece altamente probabile. E, come dici tu,
questo spiegherebbe anche le religioni e le filosofie esoteriche. Più avanti il
libro accenna ai demoni canes: esseri
che vivono nella simulazione, ma in realtà hanno scopi di controllo, come i
secondini (le guardie carcerarie). Alcuni ne sono consapevoli, ma altri no;
questi ultimi lavorano per i creatori della psicoprigione ma non lo sanno, come
secondini che vivono anch’essi nelle celle con i carcerati, diventano loro
amici, ma in realtà con i loro atteggiamenti e le loro idee impediscono ai
carcerati di fuggire. ...»
Ainwen venne bruscamente interrotta dalla voce del
bibliotecario, il quale nel frattempo si era silenziosamente portato alle loro
spalle: «I signori sono pregati di abbassare il tono della voce, oppure
seguirmi all’uscita».
I due ragazzi chiesero scusa, il bibliotecario fece un mezzo
sorriso, che sembrava quasi una smorfia di dolore, e si allontanò. Poi Ainwen
sussurrò a Ennòn: «Più avanti nel libro c’è anche scritto che la sofferenza non
è reale. Capisci? Le mie crisi depressive... la mia voglia di uccidermi... la
mia rabbia... non sono reali. Se è così, io lo scoprirò. Scoprirò il modo per
venirne fuori». Poi lo fissò, con estrema serietà, per qualche secondo, si alzò
dalla sedia e cominciò a raccogliere le sue cose.
Lui era esterrefatto. Sì... non c’era dubbio... ciò che gli
stava accadendo quella mattina, non poteva essere reale!
... continua.
Salvatore Brizzi
(professione: domatore di fiumi)
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