Innanzitutto chiariamoci sul termine »illuminazione«: la
realizzazione del proprio vero Sé, per
mezzo dell’identificazione fra l’io individuale e l’essere assoluto. Detto in
altre parole, il ricercatore – quello che nella cultura occidentale veniva
semplicemente chiamato filosofo – realizza che il suo io non ha esistenza
separata rispetto all’oggetto – Dio, l’essere – della sua ricerca. Se vogliamo
attenerci alla tradizione occidentale, possiamo parlare della figura del
filosofo che cerca e realizza la Verità. Non la ottiene come acquisizione
intellettuale, bensì la incarna. Diceva il nostro Gesù: “Io sono la Via, la
Verità e la Vita”. Gv 14,6
Nell’esoterismo questo processo è definito come “ritorno a
casa del Padre”.
L’illuminazione è difficile. Inutile prendersi per il sedere
(non è un “evento quantistico di massa”!!!).
Occorrono intere vite di ricerca spirituale prima di
giungere all’incarnazione nella quale tale realizzazione finalmente avviene. Chi
vi dice che l’illuminazione può avvenire in chiunque e in qualsiasi momento, da
un punto di vista teorico ha ragione, in quanto ognuno di voi è già in questo
momento la consapevolezza che sta cercando; tuttavia, da un punto di vista
pratico – e realistico – l’illuminazione accade a pochissimi. Oggi sta
accadendo molto più che in passato, ma in ogni caso stiamo parlando di perle
rare, se consideriamo una popolazione di sette miliardi di esseri umani.
La meditazione nell’antichità, così come ai nostri tempi, veniva assegnata all’allievo che doveva ancora sviluppare alcune capacità di base atte a realizzare “in un istante intuitivo” l’identificazione
con l’essere. La meditazione quindi non serve come via
per ottenere l’illuminazione, ma solo come esercizio propedeutico ad essa, nell’ottica
di acquisire qualità ancora mancanti.
Un aspetto indispensabile nella filosofia della non-dualità
è la capacità di indagare il proprio stesso io. Risulta però ovvio che se il
discepolo non è ancora in grado di tenere la coscienza ferma e concentrata
sulla sensazione di »esserci« (l’io, appunto), non è cioè in grado di “ricordarsi
di sé”, come direbbe Gurdjieff, allora è necessario che egli pratichi la meditazione,
non per illuminarsi, bensì con il fine di acquisire o affinare tale capacità. Se
infatti non siete in grado di tenere a bada la mente, non vi potete ricordare di
voi, ossia non potete restare fermi nel vostro esserci; e se non potete indagare
l’esserci individuale, non potete nemmeno realizzare l’essere assoluto.
Il fatto che nessuna pratica meditativa possa condurre all’illuminazione,
non è un punto di vista opinabile, ma costituisce un punto fermo sul quale
concordano tutti coloro che hanno realizzato il Sé. Non sto quindi parlando né di
studiosi di antiche tradizioni né di compilatori di antologie. Per dissolvere questo dubbio è sufficiente porsi la domanda: “CHI sta praticando la meditazione ai fini dell’illuminazione?” Non è forse proprio quello stesso io che volete estinguere... a decidere tutti i giorni, con ferma convinzione, di continuare a meditare?
Se osservo me stesso, mentre sto scrivendo, realizzo
immediatamente che ciò che sono, non avrei mai potuto ottenerlo con un atto
volitivo di quell’io che credevo di essere fino a poco tempo fa. Che fosse
meditazione piuttosto che ingurgitare un decotto di ayahuaska... niente, ma proprio niente, avrebbe potuto condurmi Qui,
dove sono adesso, che è poi dove sono sempre stato.
In ogni caso, è sufficiente leggere un libro o porre domande
a un qualunque individuo realizzato, per averne conferma.
Dice Poonja, allievo di Ramana Maharshi:
-Non dai niente da
fare ai discepoli?
-Nessuno fa niente
qui. Le persone che vengono qui hanno già fatto molte cose con altri
insegnanti. Io mi limito a dir loro: “Rimanete tranquilli, in silenzio”.
-E questo non comporta
una pratica?
-Qui vengono persone
da tutte le parti del mondo. Tutti gli insegnanti avuti in precedenza hanno
dato loro degli insegnamenti, ma evidentemente non ci sono stati risultati. Ci sono
molti ashram al mondo, molti centri spirituali. In quei posti succedono molte
cose di vario genere, ma non danno risultati. Le persone hanno tante esperienze
spirituali, ma nessuno ottiene la libertà in quei posti. Qualsiasi yoga o
pratica si segua, viene fatto con la mente o con il corpo. Lo yoga è fatto principalmente
con il corpo, la meditazione con la mente. Qualsiasi comprensione si ottenga
dalla meditazione, deve quindi avvenire nella sfera mentale.
Lo stesso Siddharta Gautama Buddha praticò meditazione e
ascesi sotto la guida di almeno due maestri accertati storicamente – Āḷāra Kālāma e Uddaka
Rāmaputta – in due successivi momenti della sua vita, ma in entrambi i casi,
pur avendo raggiunto obiettivi spirituali elevati e nonostante fosse diventato
maestro a sua volta, non ritenne di aver ottenuto la liberazione finale, la
quale arriverà solo più tardi, sotto il famoso albero (un ficus), dopo sette
settimane di “raccoglimento ininterrotto”.
Se uno dei mille insegnanti odierni di pratiche meditative –
ovviamente sempre collegate a tradizioni pure e antichissime (perché ciò che è
antico di almeno un millennio è, per definizione, più figo/efficace di ciò che
è odierno) – con il fine di giustificare il suo corso di meditazione, vuole
chiamare meditazione anche le sette settimane di raccoglimento del Buddha, è
libero di farlo, ma allora dobbiamo chiarire cosa intendiamo per meditazione,
perché nulla di ciò che viene insegnato oggi in un qualunque corso di
meditazione – e io in passato ne ho frequentati diversi – somiglia allo stato
che ha portato il Buddha all’illuminazione finale. Tali pratiche sono invece proprio
quelle che il Buddha ha incrociato nella sua giovinezza, per poi abbandonarle.
Se vogliamo definire con il termine meditazione anche "l’indagine
finale sulla natura illusoria del proprio io" (=self-inquiry), allora Buddha ha meditato pure in
quelle sette settimane, e anche Poonja, Ramana Maharshi, Nisargadatta Maharaji
e tanti altri fino ai più recenti Gangaji, Francis Lucille, Bodhi Avasa, Mooji, Karl Renz e Rupert Spira,
sarebbero d’accordo nel consigliare questo genere di meditazione. Come al
solito... basta chiarirsi sui termini.
Ci tengo a precisare che non sto parlando male della meditazione. Le tecniche meditative sono molto utili se vengono praticate con fini chiari e per periodi di tempo limitati, esattamente come per le modificazioni della dieta, i comportamenti sessuali, la recitazione di mantra e le tecniche di respirazione. Nessun maestro serio – ma nemmeno un qualsiasi individuo con un po’ di sale in zucca – ti direbbe che chiunque su un percorso spirituale deve diventare vegetariano oppure deve praticare meditazione oppure deve praticare la ritenzione del seme durante i rapporti sessuali. Nessuna pratica può essere, per definizione, una “via verso l’illuminazione”. L’unica pratica che ti posso consigliare è indagare se esiste davvero qualcuno che vuole fare una pratica. Fallo ogni volta che ti viene voglia di illuminarti. Questo è tutto.
Non mi stancherò mai di dire che non è possibile garantire oggi, nel 2016, l’affidabilità e l’efficacia di pratiche e metodi vecchi di secoli, se non di millenni. Una pratica meditativa, un mantra o un esercizio sessuale che potevano tranquillamente venire assegnati a un individuo nato ai piedi dell’Himalaya nel 1000 d.C., potrebbero non essere adatti – o addirittura creare dei disastri – nell’apparato psicofisico di un newyorkese del 2016. Infatti i problemi regolarmente si presentano. I corpi sottili e di conseguenza la sensibilità/ricettività del sistema nervoso degli esseri umani alle energie sottili, muta sia nel corso del tempo (l’umanità di oggi è molto diversa da quella di 1000 o 2000 anni fa; la densità stessa dei corpi fisici cambia con i secoli), sia rispetto alla razza di appartenenza.
Dal momento che per lavoro incontro centinaia di persone
tutte “in odore di spiritualità”, i disastri di certe pratiche io li vedo tutti
i giorni. Gli occhi lucidi e arrossati di chi pratica la meditazione oppure la
ritenzione del seme (i due lavori producono effetti molto simili sia sui corpi
sottili che sul sistema nervoso) mi sono fin troppo familiari. Entrambe le
pratiche aumentano la quantità di energia in circolo, ma questa segue le linee
di minor resistenza all’interno dell’apparato psicofisico, per cui si dirigerà
principalmente verso i meccanismi psicologici già esistenti. Per esempio, di norma
chi pratica molta meditazione incrementa il suo livello di giudizio e diventa
più critico e aggressivo nei confronti della società. Senza nemmeno rendersene conto si
focalizza sempre di più in direzione del brutto e dello sbagliato, continuando però a
credere di stare adottando un atteggiamento utile all’evoluzione sua e degli
altri.
Inoltre l’energia sessuale, proprio perché viene prima
incrementata da yoga e meditazione e poi imbrigliata all’interno di esercizi e
rituali, diviene sempre meno gestibile nella vita quotidiana, un ordigno sempre
pronto ad esplodere; cosicché il discepolo è costretto a giustificare una condotta sessuale lasciva e dissoluta con un
mancato interesse verso il rapporto di coppia monogamo, che a suo dire sarebbe oramai vecchio e superato per chi si trova su un “percorso tantrico”. L’aggressività, il sarcasmo e l’utilizzo del turpiloquio sono altri segnali che l’energia sessuale non è direzionata correttamente. Pur di non ammettere che le cose non stanno andando proprio
per il verso giusto, il praticante finge, anche con se stesso, che un comportamento meccanico
e compulsivo sia in realtà frutto di una scelta filosofica ponderata.
Praticando meditazione, esercizi di respirazione, orgasmo senza eiaculazione o recitazione di mantra, per un periodo di tempo abbastanza lungo, cominciano anche ad accadere le cosiddette “esperienze spirituali”: si va dalle visioni mistiche, al senso di beatitudine, ad altre esperienze sempre di origine mentale, per quanto appartenenti ai piani superiori del corpo mentale. Ovviamente
niente di tutto questo ha qualcosa da spartire con “la realizzazione della
natura illusoria di colui che cerca”. Inoltre, paradossalmente, l’io, anziché
mollare la presa, diviene sempre più orgoglioso, poiché sente di stare facendo
qualcosa di utile nel percorso di avvicinamento all’illuminazione. Un’illuminazione
che è sempre a un passo, ma mai qui-e-ora.
Meditate gente...
meditate.
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